I monumenti di Avellino e del territorio circostante |
Il Formicoso |
Lungo la statale 303, si raggiungono le Toppe del Formicoso, il punto più elevato dell'Appennino tra la Valle dell'Ufita a nord e quella dell'Ofanto a sud. Questi alti terreni ondulati si caratterizzano per l'assenza di alberi. 1 venti freddi settentrionali e di Levante vi spirano con forza e costanza: tanto che oggi questa risorsa energetica viene sfruttata sia dalla centrale eolica di Bisaccia che da altre in procinto di essere istallate sul territorio. Le creste appenniniche dell'Alta Irpinia, esposte ai continui flussi eolici, si sono così trasformate in fonte di reddito per i locali, ben lieti di cedere i terreni a prezzi vantaggiosi per lo sfruttamento del vento. LAlta Irpinia sta divenendo pertanto produttrice di energia pulita e luogo di sperimentazione di nuove tecnologie. Il Formicoso un tempo ricco di boschi, è oggi un territorio prettamente agricolo, dove si praticano colture cerealicole; non mancano però gli incolti con quercioli e cerri, macchie di prugnoli e biancospini. La zona è ricca di sorgenti di affioramento e vecchi pozzi dove risiedono stabili popolazioni di tritoni crestati, piccoli tritoni italici ed altri Anfibi. 1 cinghiali immessi popolano i valloni coperti di arbusti e di notte si spostano sui campi per mangiare. Anch'essi, come le volpi, si nutrono oltre che di cereali e ghiande, anche di rifiuti e frutta. Questo territorio ove predomina il pascolo cespugliato, è ancor'oggi popolato da numerose specie di uccelli e dalla lepre ("lu lebbr"). 1 pochissimi esemplari che vivono sul Formicoso sono i superstiti delle reintroduzioni operate ogni anno dalle associazioni venatorie con specie alloctone provenienti, nella migliore delle ipotesi, dalle steppe del Nord-Europa e che raramente riescono a sopravvivere, mai a prolificare. La lepre autoctona, ormai scomparsa, non pesava più di quattro chili ed era molto legata al territorio di nascita ("lu lebbr' andunasc, pasc' e mor"; la lepre dove nasce, si nutre e muore). Il declino iniziò con l'estendersi della monocoltura cerealicola che distrusse il mosaico ambientale del Formicoso, col diffondersi delle specie predatrici quali volpi, Mustelidi, cani e gatti randagi, con l'eccessiva crescita dei "falaschi" e del sottobosco che ne ostacolava la fuga in caso di pericolo, con i trattoristi che aravano nelle notti di agosto sempre accompagnati dallo schioppo. Fra i Galliformi la starna, con una sottospecie endemica di piccola taglia, costituiva folte popolazioni nei calanchi del Formicoso e sui conglomerati delle Serre, del Monte e di Origlia, ma si è estinta gradualmente, decimata dalla laringo-tracheite dei polli, dai concimi granulari ingeriti come frammenti calcarei al tempo della riproduzione e dalla profonda alterazione dell'habitat. 1 numerosi tentativi di ripopolamento sono stati eseguiti con gli stessi errori evidenziati per la lepre; sono state immesse cioè specie alloctone, con caratteristiche non adatte ai nostri territori. 1 rapaci di grandi dimensioni come i nibbi reali e le poiane planano sul Formicoso alla ricerca di micromammiferi, mentre di notte si odono i canti territoriali di gufi comuni, allocchi, civette e assioli. Sino a pochi anni fa sono stati abbattuti sul Formicoso anche i gufi reali, magnifici Strigiformi ormai quasi estinti in gran parte dell'Italia. La dorsale appenninica del Formicoso non supera i 1.000 m ed è posizionata a ridosso della Valle dell'Ofanto che sbocca in Adriatico a nord-est, in direzione delle steppe dell'Europa Orientale. Il Formicoso è un facile punto di passo per molte specie di Uccelli che in autunno lasciano le gelide regioni nord-orientali per svernare lungo le tiepide sponde del Mediterraneo o in Africa, varcando l'Appennino meridionale. Per tale motivo si può assistere a intense migrazioni di beccacce, combattenti, beccaccini, pivieri dorati, fratini e pavoncelle. Arrivano numerosi anche gru, tordi e allodole in migrazione postriproduttiva, e quaglie nelle migrazioni primaverili. Queste ultime, dai quartieri invernali africani, raggiungono in primavera gli altopiani appenninici coltivati a grano, dove si riproducono costruendo nidi a terra. I piccoli vengono allevati in estate e nutriti con semi; a settembre inizia la migrazione di ritorno. Fino agli anni Sessanta, un secondo contingente di quaglie risaliva sul Formicoso nel mese di giugno dal Tavoliere Pugliese, perché scacciato dalla siccità e dalla mietitura precoce; i due contingenti restavano in zona sino alla fine di settembre per poi migrare in Africa. Oggi in questi campi di grano le quaglie vengono prima avvelenate in primavera con i diserbanti; poi i nidi sono "falciati" in estate dalle mietitrebbie; le sopravvissute, infine, vengono arse vive perché gli agricoltori continuano a perseverare nella criminale pratica di incendio precoce delle stoppie. Fino agli anni Cinquanta la trebbiatura avveniva con il solo ausilio di buoi e mulie si protraeva sino ad agosto inoltrato. Le stoppie venivano bruciate così in settembre, quando le quaglie cominciavano la loro migrazione di ritorno. Oggi le quaglie riescono a nidificare e sopravvivere solo nei terreni incolti che, per fortuna, sono in aumento. Sterminati stormi di calandre ("stuol' re' calandrun") si riunivano, alle prime piogge tardo-estive nelle stoppie degli altipiani del Formicoso, di Macchialupo e San Mauro a Lacedonia, partendo solo in autunno inoltrato. La loro presenza era legata all'abbruciamento tardivo delle stoppie: ora purtroppo sono scomparsi. La forte contrazione delle popolazioni si è verificata, come per la quaglia, quando le esigenze dell'agricoltura cerealicola e l'abbandono della rotazione agraria, hanno imposto la combustione anticipata delle stoppie e le arature agostane dei campi. Labitudine di incendiare le stoppie comporta poi una totale distruzione di tutti gli animali di piccola taglia e spesso della vegetazione: l'intero ecosistema collinare ne risulta compromesso. Le allodole, chiamate dai locali "cucciarle", scendono in autunno dall'Europa centro-orientale verso l'Africa, sostando sul Formicoso. Talvolta in ottobre sono abbondanti, anche perché esiste una cospicua popolazione di allodole che qui nidifica. Le cornacchie e le taccole sono gli uccelli più abbondanti della zona in quanto si sono adattati alle mutate condizioni ambientali: essi frugano le discariche, ripuliscono i campi dagli scarti delle raccolte meccanizzate e non costituiscono oggetto di caccia, in quanto duri ed indigesti. In ottobre vi è il passo di merli, tordi sasselli e bottacci, tanto celebrati sin dall'antichità per la squisitezza delle loro carni, tordele che passano da un pero all'altro in cerca di vischio, le rare cesene a caccia di drupe di biancospino foriere di freddo intenso, e beccaccini e pavoncelle negli acquitrini ai margini di campi o di boschi. Né vanno dimenticati gli stornillil colombaccio e la colombella, oggi praticamente sparita per ragioni ignote, ma presente fino agli anni Sessanta in branchi numerosi. Fra gli uccelli di passo primaverile, compare per prima la marzaiola, ma solo negli anni ad inverni particolarmente freddi, e si insedia ovunque trovi anche una pozzanghera. Seguono i Passeriformi più minuti, poi il cucùlo, il rigogolo, la tortora, la quaglia. Dalle Toppe del Formicoso si passa per contrada Petrulli e, risalendo per Bisaccia Nuova (885 m), paese dalla caratteristica struttura geometrica ricostruito dopo il terremoto del 1930, si giunge poco dopo a Bisaccia (860 m). Il centro agricolo in bella posizione su di uno sperone del Monte Calvario, tra due burroni, è dominato dal grandioso Castello ducale longobardo. Da Bisaccia si continua lungo la statale 303 per Lacedonia, l'antica Aquilonia romana, situata su di un altopiano arenaceo, le Ripe di Lacedonia, a 734 m, da cui si godono ampi panorami sul Vulture e sul Gargano. Il blocco argilloso delle Ripe, con resti fossili di Echinodermi Spatangoidei, costituisce il substrato agrario della zona. Lerosione ha frequentemente generato vistosi calanchi: nelle annate piovose e nelle aree disboscate si verificano spesso rovinosi smottamenti che devastano pascoli e campi. Talora si rinvengono nei campi tracce delle ceneri vesuviane eruttate nel 1909 e nel 1944, ivi trasportate dai venti. In contrada Piano dell'Albero lungo la strada statale 303, in agro di Lacedonia, si notano depositi di calcari bianchi, ben stratificati, attribuiti dal Chelussi all'Eocene inferiore. Brecce calcaree di tale periodo a nummuliti e rudiste si rinvengono alle "cavate" di Lacedonia. Sono queste le formazioni che hanno sempre fornito alle popolazioni residenti il materiale per la ricostruzione dei loro siti, spesso totalmente distrutti dai frequenti terremoti. A quattro miglia da Lacedonia c'era una cava di breccia calcarea detta dai locali "granito rosa" con cui sono stati costruiti due altari gemelli nella nuova cattedrale; ora però non si conosce più l'esatta ubicazione della cava di questa pregevole breccia calcarea. |
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